La carriera di David Mamet: da maestro del dialogo a giochi di parole astratti
David Mamet è un drammaturgo acclamato da cinquant’anni,e il suo lavoro è permeato da una varietà di temi e stili così ricchi che è facile definirlo semplicemente “mametesque”. Tuttavia, analizzando la sua carriera, emerge un’incredibile e incisiva frattura, che è tanto tonale quanto filosofica e stilistica, definendo così la sua identità artistica.
Nei suoi primi lavori, come American Buffalo e Sexual Perversity in Chicago, Mamet cercava di catturare il modo di esprimersi delle persone comuni. I dialoghi erano caratterizzati da un linguaggio frammentario e spesso volgare, in cui i personaggi si sovrapponevano l’uno all’altro, creando una sorta di ritmo sincopato. Questo stile culminò nel suo capolavoro del 1983, Glengarry Glen Ross, un’analisi spietata dei venditori disonesti che trasformava il linguaggio ingannevole dei truffatori in una sorta di poesia disturbante. Mamet proseguì in questa direzione con Speed-the-Plow (1988), una satira acuta di Hollywood.
Tuttavia, la vera frattura si manifestò nel 1992 con Oleanna, un’opera che affronta il tema delle molestie sessuali in un contesto accademico. Con il senno di poi, la rappresentazione di un conflitto di potere tra i sessi era estremamente anticipatrice. Sfortunatamente, i dialoghi di Oleanna parevano scritti da un “Chatbot Mamet”, con i personaggi che si esprimevano in frasi spezzettate che rivelavano poco di sé.
Mamet non si limitava più a riflettere il suono della conversazione; si dedicava a una de-costruzione eccessivamente ponderata di essa. I critici lo avevano spesso paragonato a Harold Pinter, e proprio come Pinter era noto per il suo uso dei silenzi, Mamet cominciò a esagerare il concetto di “anti-pausa”. Le sue parole, simili a schegge minimaliste, sembravano perdere coesione. La brillantezza della “sleazy realism” di Glengarry era innegabile, ma ora Mamet sembrava tentare una forma di parola stilizzata, simile al Cubismo, che rendeva le sue opere sempre più astratte e dogmatiche. Non stava più catturando la natura umana; la stava esaminando e dissecting in modo eccessivo.
Henry Johnson: ritorno alle origini o nuovo disastro narrativo?
Henry Johnson è il titolo di un film che rappresenta un’opera di Mamet, presentata a Los Angeles nel 2023, ed è il primo lungometraggio da lui diretto in diciassette anni. Nella sua parte iniziale, il film riesce a riportarci in quell’atmosfera in cui l’interazione di due persone che si confrontano è tra le più avvincenti, sia sul palcoscenico che sullo schermo. I protagonisti sono Henry, un giovane dirigente interpretato da Evan Jonigkeit, e il suo superiore, Mr. Barnes, interpretato da Chris Bauer, che ricorda un noto attore degli anni ’70 e ’80.
In un ufficio arredato con elementi tradizionali,Barnes interroga Henry riguardo a un suo amico coinvolto in un grave crimine. L’amico, infatti, aveva indotto una gravidanza e, di fronte al rifiuto della donna di interrompere la gravidanza, aveva provocato un aborto tramite violenza. Questo crimine non è solo un elemento della trama, ma serve anche come provocazione subtestuale sulle questioni relative all’aborto. Il dialogo non si limita a esplorare il crimine stesso, ma mette in evidenza la psicopatia dell’amico di Henry, che sin dai tempi del college cercava di manipolargli la natura fiduciosa.
Henry Johnson si sviluppa in tre atti distinti, ciascuno legato da un monologo che si presenta come una conversazione. Henry è l’unico personaggio presente in tutte le scene. L’inizio del primo atto, che medita sull’arte della manipolazione umana, culmina in un colpo di scena: la rivelazione di un crimine e il legame più profondo di quanto si pensasse tra Henry e il suo amico. Nella scena successiva, Henry si ritrova in prigione, vestito con una tuta gialla, sollevando interrogativi su come possa sopravvivere in un ambiente simile.
Il suo compagno di cella, Gene, interpretato da LaBeouf, rappresenta il criminale più astuto e ingegnoso possibile. Gene, dai tratti molto studiati, sembra un filosofo sociopatico della violenza e il suo sguardo attento esplora ogni soggetto. Tuttavia, la sua frenetica esposizione di aggressività e consigli tende a sovraccaricare la trama, presto il film inizia a perdere direzione.
Evan Jonigkeit disegna Henry come un naïf passivo, poco interessante dal punto di vista del pubblico, che si sente più un burattino manipolato che un protagonista attivo.La sua complessa relazione con la consigliera carceraria e l’influenza di Gene sul suo comportamento sembrano forzate, mancando di una solida costruzione narrativa.
Nell’atto finale, con una pistola in mano e un bibliotecario come ostaggio, lo sviluppo della trama appare irreale, ma Mamet non sembra preoccuparsene, concentrandosi su un ulteriore monologo.Purtroppo, questa parte risulta inefficace e contribuisce a un progressivo afflosciamento della narrativa.
Ripensando al film, ci si rende conto che l’aria di deflazione è presente già da tempo, persino durante la performance di LaBeouf. Mamet, ora, non scrive più opere che rispecchiano la realtà; per lui, questo sembra essere un concetto superato. Invece,crea opere che servono da fucina per i suoi “insignificanti” e verbosi pensieri. La pubblicità di Henry Johnson potrebbe facilmente recitare: “Tre monologhi. Un ingenuo. Un drammaturgo incredibilmente prolisso.” Assistendo al film, si percepisce la vasta abilità di Mamet, sempre lì, ma insieme emerge anche il disprezzo che ora prova nei confronti della realtà dell’intrattenimento. Vuole spingerci oltre la nostra zona di comfort, ma ha creato una zona di disagio autoindulgente mascherata da importanza.
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